SALGARI E IL POTERE
Leggendo La tempestosa vita di capitan Salgari, di Silvino Gonzato, edito da Neri Pozza, mi è venuto in mente un testo del poeta francese di origini ebraiche Edmond Jabès dal titolo Il libro della sovversione non sospetta. Questo testo di Jabès si interroga sull’essenza stessa della scrittura, non della scrittura giornalistica o scientifica, ma della scrittura in cui è in gioco il soggetto che scrive, la scrittura potremmo dire creatrice. Scrittura che è il luogo per eccellenza della sovversione perché in essa trova la sua genesi un mondo totalmente altro da quello in cui viviamo e che si oppone a questo mondo- lo interroga, infatti scrive Jabès: “Uno scritto non è uno specchio. Scrivere è affrontare un volto sconosciuto.” E ancora: “Si può interrogare soltanto il Potere. Il non-potere è l’interrogazione stessa.”
E sconosciuti alla realtà sono i volti di Yanez e Sandokan, come i mari solcati dalla fantasia di capitan Salgari, ma non alla fantasia dell’autore e del lettore, che attraverso quella scrittura che Gonzato definisce “una prosa che vive della forza primitiva del linguaggio dell’avventura fantastica, della freschezza sorgiva della scrittura immediata che è nello stesso tempo suggestione di immagini, suoni e odori, che tiene in sospensione il lettore, estraniandolo dalla realtà” (pag. 63) E appunto, estraniandolo vi oppone un altro modello della realtà, in una lotta dove l’ordine costituito si scontra con “l’oceano indulgente della fantasia, una dimensione in cui i confini del meraviglioso non retrocedo mai e si può essere marinai godendone soltanto i vantaggi. Ma dove purtroppo anche le angosce, le tragedie o solo le scabrezze della vita reale, che scorre più in basso come un fiume carsico, vengono percepite con una sensibilità esasperata.” (pag. 115).
Allora l’opera dello scrittore, o meglio del “facchino della penna”, come si definiva lo stesso Salgari è sempre opera politica, e opera, indipendentemente dalle esplicite intenzioni, opera di opposizione al mondo in cui viviamo, poiché al brusio delle istituzioni si oppone il silenzio della penna, alla logica del profitto si oppone “questo insensato gioco di scrivere” come lo definì Mallarmé, dove “mentre scrivi hai gli occhi rivolti verso il basso, ma il cielo è nei tuoi occhi”, per citare ancora Jabès. Cielo che era negli occhi di Salgari quando annotava: “non saprei vivere lontano dai miei personaggi. Staccarmi dalle mie fantasie vorrebbe dire togliermi la ragione logica dell’esistenza. E’ inutile! […] sento il bisogno, per non morire di noia, di seguire le mie chimere nel mondo dei personaggi e di rivivere nella creazione le avventure che ho vissuto in India e sulle coste della Groenlandia.” (pag. 184) Avventure che, ovviamente, non aveva vissuto nella realtà effettiva, ma sono in quella realtà più reale del reale che è la pagina scritta, dove la parola sovverte il bianco del silenzio e “grazie a questo l’uomo danza su tutte le cose e al di sopra di esse”, come scrisse Nietzsche.
Tuttavia l’uomo è sempre ben situato sulla terra, che si difende dagli attacchi della fantasia con le armi della sua logica e delle sue necessità, quali sono, ad esempio i beni materiali, così Salgari, dopo aver scritto ai figli: “Sono ormai un vinto”, si congeda, prima della morte, dagli editori, o meglio dal potere editoriale scrivendo “Vi saluto spezzando la penna” (pag. 197) D’altra parte la fantasia ha dalla sua il carattere di insostituibilità della sua creazione, in quanto come scrive Derrida: “Anche dall’incubo peggiore […] saremmo dunque delusi di essere risvegliati, perché ci ha comunque dato da pensare l’insostituibile, una verità o un senso che la coscienza rischia di dissimularci al risveglio, o di addormentare di nuovo. Come se il sogno fosse più vigile della veglia.” Da qui la necessità, per non assopirci nella chiacchiera televisiva, di aprire gli occhi a quel mare sconosciuto che è la fantasia, mare tanto caro a Salgari, mare “Folle per non morire con una sola onda”, secondo i versi di Jabès. Mare da sempre inviso al potere, non a caso infatti, nel primo testo di teoria politica della tradizione occidentale, vale a dire La Repubblica di Platone, nel momento della costituzione della città i poeti e i cantastorie, vengono espulsi da questa.
di Piergiorgio Svaluto Moreolo