FEDELE ALLA LINEA
Fedele alla linea, di Germano Moccioni, 2013
E’ occorso tempo per capire, dentro di me, che, pur essendo figlio di una più vasta cultura ocidentale, pur essendo un inguaribile estimatore di musica pop e rock, pur essendo un consumatore di cinema americano e di letteratura della beat generation, sono anche profondamente emiliano. E, in questo senso, legato alle mie origini in quel modo tutto particolare – generoso, forse esuberante e ansiosamente malinconico – che hanno i personaggi della mia terra.
Pier Vittorio Tondelli, Un racconto sul vino
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Orson Welles legge Pasolini, La ricotta
Questo scritto è uno e molti: “abbiamo scritto questo in due e, poiché ognuno di noi era molti, c’era parecchia gente”, ci avvertono Gilles Deleuze e Felix Guattari all’inizio di Mille Piani.
Fedele alla linea, di Germano Maccioni, (già autore di documentari sulla vita nelle carceri italiane I giorni scontati (2012) e sul processo per i crimini nazisti a Montesole, Lo stato di eccezione), non è un documentario su Giovanni Lindo Ferretti. È anche un film su Giovanni Lindo, figura di cantante, intellettuale, musicista, tra le più controverse e affascinanti della storia degli ultimi decenni. Il film ha tuttavia uno sguardo e una valenza più ampie, e direbbe molto anche a chi avesse avuto la sfortuna di non aver mai intercettato nemmeno una delle molteplici trasformazioni musicali del protagonista, già voce dei CCCP, poi CSI, infine PGR. Non rimane tuttavia deluso, nel vederlo, nemmeno il fan di lunga data, l’appassionato cresciuto con quelle liriche che dal punk si sono alzate toccando alcune tra le vette più alte della musica italiana. Anzi, Fedele alla linea è la convincente risposta ai molti interrogativi da bar, rimasti senza replica e sorti all’indomani dei numerosi cambiamenti di Giovanni Lindo, nel passaggio da una formazione musicale all’altra e in quello, perlomeno apparente, da una concezione ideologica all’altra. Non condivido molte delle posizioni politiche espresse in anni recenti da Ferretti, non ho letto Reduce e, come molti, ricordo quando apparve vicino alla sua casa la scritta “Giovanni Lindo: dalle pere a Pera”, riferito al suo passato di eccessi e all’allora recente presente di collaborazione intellettuale con il senatore Pera. Il film è una convincente risposta a questo, fondamentalmente perché di questo non si occupa.
Giovanni Ferretti, detto “Lindo” è uno e molti: è CCCP, è CSI, è PGR- sembra che questa molteplicità trovi riposo, quiete solo nella sigla, nell’insieme di lettere (per lo più consonanti) che significano, al di là della loro pronunciabilità.
Doveva chiamarsi in un altro modo, ma Fedele alla linea è infine il titolo più adatto a descrivere una simile storia, una simile vita. Nel progetto concordato tra Giovanni Maccioni e Lindo Ferretti, amici di lunga data, argomento del film doveva essere la Corte transumante di Nasseta. Libera compagnia di uomini cavalli e montagne, la compagnia di cui al momento Ferretti fa parte e che è, nelle sue parole, la summa di tutto il suo percorso di ricerca. Un percorso che comincia nel punk e nell’estetica del comunismo, termini che andrebbero sostituiti nella citazione in alto di Tondelli, quando lo scrittore parla del proprio amore per la beat generation e la cultura americana, pur essendo, anche lui, figlio di quella stessa Emilia. Entrambe le vicende, quella di uno scrittore di rottura come Tondelli, e del menestrello del punk, proprio nell’Emilia affondano le proprie radici. È questo, a mio avviso, il senso profondo del film. Che è il racconto di una vicenda personale, singolare e bellissima, a tratti epica, ma che è più in generale una storia universale, di un uomo che fa i conti con la propria vita, e con quanto di più grande essa gli abbia posto davanti: l‘essere figlio e orfano, la perdita, l’appartenenza, la malattia, l’educazione, lo smarrimento, il dolore.
E la sigla sembra essere una sorta di disciplina del nome. La linea a cui si è fedeli è una linea disciplinare, retta. E disciplina è parola chiave che scandisce il documentario. Sospesa come le prime note di Irata, quasi che quello “incombere umorale delle idee, delle istanze” abbia da essere tenuto a freno, disciplinato, cioè ritmato. Così ritmica è la morte che disciplina la vita- la morte che tiene a freno l’eccedenza, che della vita è istanza. Morte è parte della vita, accrescimento di essa- come la malattia: l’ospedale diviene il simulacro della vita moderna, l’ultimo luogo di culto, proprio perché pieno di morte- secondo le parole di GLF.
A sottendere al tutto, la questione del tempo: il tempo minuscolo e veloce, eppure densissimo, della vita umana, e un tempo eterno ed immutabile, che è quello della montagna, in questo caso degli Appennini, che è misura di quanto vi è di più profondo, e vero. La ricerca di questa profondità e verità, ricerca sempre fedele a se stessa, è la cifra esistenziale del volto scavato di Ferretti. E si racchiude tutta nel suo sguardo, nei sorrisi e nelle risate nel ricordare l’educazione cattolica, l’infanzia di bambino adorato dalle suore, e quella giovinezza straordinaria in cui, per una breve stagione, Reggio Emilia divenne la fucina del punk. Nulla da invidiare a Berlino, non periferia dell’impero, ma capitale di qualcosa di unico, in cui si mescolavano le speranze e le frustrazioni di una generazione, la forza eversiva del punk, il tutto però con una profondità tutta emiliana. “Chiedi a ’77 se non sai come si fa“, cantavano i CCCP, e se del ’77 sono figli, alla sua coda lunga non sarebbero probabilmente sopravvissuti, se non per qualcosa di più profondo, radicato. Lindo Ferretti racconta come solo tornare dai suoi cavalli, nella casa in cui la madre l’aveva cresciuto, gli permettesse di essere il perno di una cosa così grande. Essere voce e volto principale (non unico, perché di lavoro collettivo si trattava) dei CCCP e poi CSI, era una responsabilità enorme, e quando qualcosa è saltato c’è stata la malattia, un’angoscia raggrumata sopra la spalla che altro non era che un tumore, lo stomaco bucherellato, poi il viaggio in Mongolia. Ed è la Mongolia il luogo in cui i due tempi, quello dell’uomo, delle contingenze, e quello smisurato della natura, si fondono. La Mongolia è spazi infiniti, e vederla percorrendo la transiberiana, proprio mentre l’unione sovietica si disfaceva, è stato tornare a qualcosa di atavico: uomo e cavallo che si parlano in un linguaggio antichissimo, sempre uguale. È di questo che ora Giovanni Lindo si occupa: alleva cavalli dell’Appennino e li addestra secondo una tecnica che è, nelle sue parole, un tentativo di salvare questo (lo dice mostrando il suo borgo), prima che scompaia. Si riferisce alle poche cose in cui i due tempi, quello immediato e breve dell’uomo e quello sterminato della natura si fondono. E lo fanno nell’equilibrio di un borgo le cui case sono costruite per antica sapienza, e in parole condensate che riportano, sempre uguale a sè stessa, la solita storia: i miti. I miti che parlano dell’uomo, della sua forza e dei suoi enormi limiti, dell’ascolto e del rispetto di una terra che ben di più sa, perché ben di più ha visto. Giovanni Lindo Ferretti questo fa, ora, custodisce miti, coltiva le proprie radici. Ed anche in lui, nel suo volto scavato, i due tempi convivono. Quello di una persona che molto ha vissuto, avvicinandosi a ciò che per essa è più profondo, e la stessa, a tratti, vitalità di chi per una stagione è stato la voce della rivoluzione punk.
L’uomo, l’ecceità che sta dietro alla sigla, produttore di miti. E dietro la sigla, il mito, l’uomo, c’è il corpo. Quel corpo che è sintomo dell’arcaico che siamo, allora il teatro nuovo di GLF sarà quello che ha più legame con l’origine (con l’arché, appunto): il teatro di sangue e cavalli, di corpi disciplinati dalla morte: “occhio cecchino etnico assassino/ alto il sole: sete e sudore” (Cupe Vampe)
Ha raccontato il regista ad una proiezione, in una Pordenone di fine estate gremita e commossa, che Lindo Ferretti, la prima volta che ha visto il film, il cui argomento dovevano essere solo la compagnia e i cavalli, con gli occhi lucidi abbia commentato solamente: “sono ancora un punkettone”. Davvero. Chiedi a ’77 se non sai come si fa.
Questo scritto è spezzato, pieno di fenditure- malaticcio e vivido: “sono come tu mi vuoi”. Allora non sono “codice cifrato” ma nemmeno una firma. Una sigla. Ancora.
Di CSSP