RECENSIONE DE “IL ROSA NUDO”, REGIA DI GIOVANNI CODA
Al termine della proiezione de Il rosa nudo, di Giovanni Coda, si sentono sospiri. Nel silenzio attonito e composto, dove le parole faticano ad uscire, è il prendere fiato il primo rumore che sento. È il suono di un tentativo: non tanto quello di sentirsi sollevati dalla pesantezza di ciò di cui si è appena fatto esperienza (perchè nè di sola visione, nè di solo ascolto si tratta), ma, credo, del tentativo di acquisire ossigeno, forze, per poter trattenere l’immenso peso della storia racconatata, di non accantonarla, di sentirla davvero.
Perchè è questo, per chi scrive, il rischio dell’addentrarsi in vicende tanto dolorose: che non ci sia la forza per affrontare l’orrore, parola quasi consumata per quanto viene usata, specie in giorni come quelli che stiamo vivendo, dedicati alla memoria, che paiono spesso giustificazione ad atri 364 di smemoratezza. Eppure, penso sia umano avere una misura anche nella capacità di com-prendere. Nell’umwelt, l’universo di significato di chi sia cresciuto nella seconda metà del secolo scorso, alcune cose sono tanto estreme da risultare fuori misura, lontane dalla capacità di immaginazione. Così, è come se alzando la lancetta del gradiente dell’orrore, quando ci si avvicina a quel buco nero che fu la decisione sistematica, operata dal regime nazista, di eliminare non solo un popolo, ma chiunque non si conformasse, per ragioni etniche, di orientamento sessuale, di salute, per idee politiche, ad un modello prestabilito, la capacità di compresione andasse in tilt.
Si ascoltano cifre di morti, di persone “rastrellate” ed eliminate, eppure non si riesce più a dar loro un volto, a dar loro una storia. Il dolore e l’angoscia sono tanto grandi che la capacità di rielaborare si spegne. Accade con molti degli orrori del mondo, quando ci vengono raccontati. Enormi, smisurati, freddi. Lontani.
Con il Rosa nudo, questo non accade. Non ci sono immagini di violenza, ma corpi nudi, e parole che raccontano e che con quei corpi parlano, in un reciproco dare voce.
La storia che si racconta, in questo collage di fonti varie, è quella di Pierre Seel, francese, nato in Alsazia nel 1923, deportato a diciassette anni nel campo di concentramento di Schirmeck, vicino a Strasburgo, dopo che alla denuncia del furto del proprio orologio era stato schedato dalla Gestapo in quanto omosessuale.
La storia di Pierre, oltre che il racconto delle atrocità subite e viste nel periodo di prigionia, è la storia di un amore. Il film si conclude magistralmente con la sola voce di Pierre stesso che racconta, commuovendosi ancora, come a settant’anni di distanza lo visiti costantemente l’immagine di Jo, l’amore della sua giovinezza, ammazzato nello stesso campo, divorato dai cani dei carcerieri con un secchio di latta in testa, nella piazza/patibolo di Shirmerk.
Il film non mostra nessuna delle immagini di queste atrocità, ma lascia immaginare e fa parlare corpi e stanze, rappresentando le parole ma non mostrandole. Non c’è nulla di esposto, in quest’opera cinematografica che molto si avvicina al linguaggio del teatro, della fotografia, della videoinstallazione, e la nudità e il bianco e nero scelto lasciano lo spazio alla comprensione, al prendere parte di una storia tanto atroce, e farla propria.
Pierre Seel è uscito vivo dal campo, non ha subito torture che ne abbiano minato il fisico permanentemente, è stato, paradossalmente, fortunato. Scrive Primo Levi, altro sopravvissuto, a proposito del momento della liberazione da Auschwitz, che essa “riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie dalla bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti” (Levi, La tregua).
Per Pierre, alla permanente ed invisibile ferita della prigionia si aggiunge quella del motivo della sua incarcerazione, l’omosessualità. Già nella straniante gerarchia dei campi i prigionieri omosessuali erano ulteriormente reietti, ed egli, una volta uscito, non ebbe mai dalla famiglia alcun appoggio o si volle fare menzione del motivo per cui era stato imprigionato. Ad esclusione della madre, visse lunghissimi anni nel silenzio, e nell’estremo tentativo di normalizzazione della propria vita scelse di farsi una famiglia, di cancellare, insieme alla propria giovinezza, l’identità di genere che gli era stata estorta. Era morto a diciassette anni.
Decise, solo dopo molto tempo, di raccontare la propria storia, anche scrivendo le proprie memorie in collaborazione con lo storico e attivista Jean Le Bitoux. Il libro, Io Pierre Seel, deportato omosessuale, è il filo narrativo de Il rosa nudo. Da allora Seel ha condotto una dura battaglia perchè il governo francese gli riconoscesse lo statuto di deportato in quanto omosessuale. È morto nel 2005, pochi anni dopo il discorso del primo ministro Jospin, in occasione della Giornata della memoria del 2001, in cui le autorità francesi riconobbero la responsabilità della deportazione anche per “coloro i quali la vita personale rendeva diversi -penso agli omosessuali- che furono perseguitati, arrestati e deportati“.
Il dovere della memoria è esercizio faticoso e pericoloso. Rischia di scivolare nella retorica, di essere lontano, freddo, oppure appannaggio di dinamiche di potere attuali.
Credo che, nella sua più vera accezione, esso abbia a che fare con il cucire, con il rinsaldare strappi troppo profondi, ben sapendo che nulla mai potrà restituire l’interezza di un tessuto. Le storie personali, le storie dei molti, i sommersi ed i salvati, sono i pezzettini di questo tessuto lacerato. Ce lo dice Tina Merlin, che “ogni storia non è sola, ma forma il passato di una comunità e in qualche modo ne determina il futuro” (Tina Merlin, La casa sulla Marteniga).
La storia di Pierre Seel, e dei molti come lui che non poterono o non vollero più parlare, e l’interpretazione in immagini e musica che ne ha fatto Giovanni Coda, è questo: materiale per cucire il passato e in qualche modo determinare il futuro.
Anche per Belluno la serata di giovedì è stata un modo per determinare il futuro. Attraverso un percorso nato dal basso, quello di Rovesci e Diritti, nato da domande profonde, dall’esigenza di dar voce e spazio alla comunità GLBT, e ad un’idea di famiglia e affettività differenti, ma senza risposte preconfezionate, la città pare risvegliarsi. La sala Bianchi era piena di persone di età diversissime, molti studenti, altrettanti adulti. Si è visto, ascoltato e parlato di un pezzo di passato, ma si stava costruendo il futuro.
Il film, intervallato da immagini di un attore che si trucca, richiamo alla Repubblica di Weimar, e al momento di enorme libertà che in Germania precedette il nazismo, ci avverte anche di questo: le discriminazioni, sebbene piccole, minori, vanno costantemente combattute, e la battaglia per i diritti civili è un esercizio faticoso e continuo, per cui è sempre tempo. Soprattutto quando, per mascherare chiusure, si risponde che, al momento, ci sono cose più serie, o urgenti, di cui occuparsi. Buon lavoro Belluno, per altri 364 giorni di memoria.
Bellissima recensione, tra la tanta retorica e i redazionali di circostanza letti in questo giorno della memoria, finalmente delle parole non banali e profonde che tra l’altro mi fanno venire voglia di vedere il film su Seel, della cui storia vicenda sentito parlare tempo fa. Considerato che i protagonisti di questa storia sono morti trovo importante che qualcuno continui a ricordarne la vicenda e il pericolo sempre presente di ritrovarsi a fare i conti con i corsi e i ricorsi della storia. Ma il Dvd si può acquistare da qualche parte o il film è ancora in proiezione?